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mercoledì 30 giugno 2010

“La mia vita dentro”, di Luigi Morsello


Il dott. Luigi Morsello è stato direttore di carceri dal 1969 al 2005. Nel suo libro La mia vita dentro. Le memorie di un direttore di carceri1 egli sintetizza tutta una vita di durissimo lavoro e di realizzazioni pratico-teoriche di primo piano.
Sono fermamente convinto del fatto che il suo testo meriti ampia diffusione e discussione: soprattutto oggi che si parla tanto di sicurezza…
Intanto, il Nostro non ha mai cessato di considerare il detenuto un uomo.
Direte: eh, bella scoperta!
Errore: la pessima situazione in cui versa oggi il sistema carcerario italiano ed il contraddittorio atteggiamento delle istituzioni e della società nel suo complesso, ebbene, tutto ciò prova come il detenuto tutto sia considerato tranne un uomo.
Pensiamo ai tanti suicidi, alle pessime condizioni igienico-sanitarie, alle celle sovraffollate, alle violenze ecc.
Preziosa quindi, perché competente e razionale, l’analisi svolta dall’A. che denuncia vuoti legislativi e culturali, mancanza di coordinamento tra i vari settori dell’amministrazione penitenziaria, penuria di investimenti, tendenza alla faciloneria, emarginazione dei “vecchi” direttori ed allentamento della catena di comando.
I suddetti motivi determinano un accentramento di poteri nelle mani di persone inadatte a gestirli ed insieme un meccanismo che definirei di costante de-responsabilizzazione; così, chi è più responsabile e di che cosa? Il ricorso alla violenza sul detenuto passa così per una sorta di panacea, quando è l’esatto contrario.2
Tipico il caso di chi rimproverava un subalterno per aver picchiato un detenuto extracomunitario dove poteva esser visto; non perché aveva commesso un reato…3
Invece l’A. ha sempre improntato la sua azione al recupero umano e civile del detenuto, conformemente ai dettami della Costituzione che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”4
Il Nostro seguì sempre tali dettami. Infatti, su sua iniziativa si ripristinò (a S. Gimignano) un’ officina falegnami ed una sarti.5 La dimensione lavorativa salvò molti detenuti dalle miserie della cella fissa e li fece sentire non dei reietti, ma persone ancora utili a sé stesse ed alla società.
Ma nonostante la qualità di alcuni prodotti per es. della sartoria, dopo l’apertura del nuovo carcere (località Ranza) chi doveva provvedere alla manutenzione delle attrezzature lasciò che andassero in malora. Né questo è stato il solo caso di sconcertante incuria da parte delle autorità…
Quando si decise che il carcere di S. Gimignano (la cui importanza storico-architettonica è ben segnalata dal Nostro6, sensibilità questa non frequentissima in tanti funzionari) doveva sorgere altrove, il nuovo sorse in una conca.
Bene: dall’alto, la nuova struttura poteva finire sotto il fuoco di qualsiasi gang, cosca o banda di terroristi!
Il carcere di Casale Monferrato era riservato a piccoli delinquenti, mancava quindi delle caratteristiche del carcere di massima sicurezza; il ministero vi inviò R. Curcio, l’ideologo delle B.R.!7
L’elenco dei problemi “regalati” al Morsello ed ai suoi collaboratori da chi avrebbe dovuto loro evitarli (essi non custodivano degli agnellini) sarebbe lungo e non privo di implicazioni anche farsesche.
Per es.: il posto di guardia del penitenziario di Pianosa mancava di semplici lampadine; l’amministrazione non le forniva. Si “ovviava” con le candele che bisognava sottrarre alla cappella del carcere8; sembra un film di Totò…
Alla luce, così come agli impianti fognari e non solo, provvedeva spesso a sue spese il Nostro!
In 40 anni di servizio egli ha dovuto fronteggiare evasioni, detenuti in rivolta, altri uccisi dai tiratori scelti della polizia, regolamenti di conti, mafiosi, terroristi e perfino sospetti su di sé da parte dei superiori. Ciò lo condusse ad una devastante crisi interiore, che non ebbe conseguenze mortali per puro miracolo.
Oggi egli affida alle pagine del suo libro qualcosa che per la sua complessità e drammaticità, merita (repetita iuvant) ampia diffusione e discussione.
Penso inoltre che lo spirito del testo sia quello delle righe conclusive di una lettera scritta da Gramsci al figlio Delio.
Bene, scriveva Gramsci a Delio che forse la storia gli piaceva perché riguardava “gli uomini viventi” e tutto ciò che riguarda “tutti gli uomini in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa.”9
Ma conoscendo l’autoironia del Morsello, so che preferirebbe che chiudessi umoristicamente.
Bene, egli nel ricordare come un suo superiore riconobbe decenni dopo i gravi errori che commise contro di lui, si dimostra certo soddisfatto.
Cita tuttavia il soldato della striscia Sturmtruppen che commenta così il conferimento della croce di ferro alla memoria: “Che bella soddisfazionen!”10



Note

1) L. Morsello, La mia vita dentro. Le memorie di un direttore di carceri, Infinito edizioni, Roma, 2010.
2) L. Morsello, La mia vita dentro, op. cit., pp.57-60.
3) L. Morsello, op. cit., p.59.
4) Costituzione della Repubblica italiana, Parte prima, Diritti e doveri dei cittadini, Titolo I, art. 47.
5) L. Morsello, op. cit., rispettivamente pp.38 e 83-85.
6) Ibid., pp.28-29.
7) Ibid., p.99.
8) Ibid., p.128.
9) A. Gramsci, Lettere dal carcere, a c. di R. Uccheddu, app. di S. Calledda, Davide Zedda Editore, Cagliari, 2008, pp.131-132. Il corsivo è mio.
L. Morsello, op. cit., p.193.

giovedì 17 giugno 2010

La discussione filosofica (parte terza)


Qui mi limito al principale ed originario significato che il termine greco aveva durante l’epoca classica. Non accolgo quindi i successivi significati conferiti dal Siracide e dal Nuovo Testamento alla metanoia come sorta di ravvedimento, in effetti identificabile col pentimento.
Benché anche in epoca classica per qualche Autore (qui penserei ma in generale ad un Polibio) metanoia significasse pentimento, tuttavia il discorso di Hawthorne mantiene per così dire una “terrestrità” di fondo.
Invece, per tutta l’impostazione etico-religiosa tipica del Siracide e del Nuovo Testamento (qui mi riferisco in particolare a S. Paolo) pentimento è concetto e situazione morale-esistenziale che nel credente può, anzi deve preludere ad un mutamento di rotta in vista della salvezza. Stiamo parlando, evidentemente, di una salvezza di tipo celeste.
L’”alternativa” consisterebbe nella dannazione eterna
Io penso però che Hawthorne intendesse dire che l’amore di sua moglie l’aveva salvato dai pericoli di un eccessivo spiritualismo (discendeva infatti da una schiatta di severi puritani del New England) nonché da quello del solipsismo.
Il solipsismo è la tesi secondo cui esisto solo io ed altri uomini, natura fisica e realtà ultraterrene non sono raggiungibili dal mio essere, che è limitato dalla mia esperienza di uomo… anch’essa limitata.
Qui il solipsismo sembrerebbe semplice empirismo, quella tendenza cioè che riconosce realtà e validità solo a quanto sia sottoposto a prova pratica e sperimentale.
Ma per i solipsisti e per Hawthorne, la questione si poneva su un piano eminentemente morale, emozionale ed esistenziale.
Infatti egli scrisse a Sophia: “Sì, noi non siamo che ombre; non possediamo vita reale, e quanto sembra più reale intorno a noi non è che la tenuissima sostanza d’un sogno. Fino, però, che non sia toccato il cuore. Da quel tocco siamo creati; allora noi cominciamo a esistere; di lì siamo fatti reali, ed eredi di eternità…”1
Ma l’amore ha su quella da Matthiessen definita l’”irreale solitudine” di Hawthorne non solo esiti “romantici”;2 infatti egli prosegue: “Non sentite, carissima, che noi viviamo al di sopra del tempo e appartati dal tempo, anche quando sembri che viviamo nel mezzo del tempo? Il nostro affetto diffonde eternità intorno a noi.”3
Hawthorne, che si sentiva legato all’orizzonte filosofico-religioso dell’antico New England più di quanto si potesse pensare, concepiva quindi l’amore come una realtà o anzi una forza ben differente dal concetto comune, che lo fa consistere essenzialmente in un’attrazione o in un legame di cuori e di corpi.
Per lui, l’amore era insieme a questo anche una forza che l’aveva lanciato oltre una precedente dimensione spazio-temporale che rifiutava. Per così dire, egli viveva quindi nel tempo e “al di sopra di esso.”4
E per lui ciò era reale: non si trattava soltanto di (comunque legittima) estasi romantica o di pur apprezzabile slancio lirico-artistico.
A livello morale-intellettuale, qui Hawthorne tocca secondo me vertici di riflessione e di dissidio interiore che tra i romanzieri (e non solo tra quelli) del XIX sec. saranno raggiunti forse solo da Dostoevskij.
Inoltre, quel modo di vivere l’amore costituì per Hawthorne una via d’uscita dal solipsismo, che senz’altro: “E’ un paradigma elitario, superbo, sociologicamente poco incisisivo.”5

Note

1) F.O. Matthiessen, Rinascimento americano, Einaudi, Torino, 1954, p.308.
2) F.O. Matthiessen, Rinascimento americano, op. cit., rispettivamente pp.308 e 409-410.
3) F.O. Matthiessen, op. cit., p.308. I corsivi sono miei.
4) Ibid., p.308.
5) AAVV., Filosofia e filosofia di, Editrice La Scuola, Brescia, 1992, p.101. Per una vasta trattazione del solipsismo cfr. Pietro Piovani, Principi di una filosofia della morale, Morano, Napoli, 1972, pp.73-78.