giovedì 19 giugno 2014
Esplorando Thomas Bernhard
Thomas Bernhard nacque a
Heerlen, in Olanda nel 1931 e morì a Gmunden, in Austria nel 1989.
Straordinaria la frase con cui la nonna gli trovò un lavoro in un
giornale austriaco: “E' mio nipote, non sa fare niente; sa soltanto
scrivere.”
La caustica frase dell'anziana
signora era probabilmente tipica di una mentalità, non so se
austriaca o solo salisburghese (la
città dei genitori di Bernhard) contro cui lo scrittore si sarebbe
scontrato per tutta la vita... L'idea cioè che l'arte ed in fondo
anche la filosofia debbano essere schivate come la peste; insomma,
Dante, Socrate, Goethe, Kant ecc. ecc. sarebbero stati dei
grandissimi idioti. Del problema si occupò anche Achille Campanile
nel suo Vite degli
uomini illustri.
Ma Bernhard
non si arrese mai a questa mentalità.
In
ogni caso, a 16 anni lasciò il ginnasio ed iniziò a lavorare come
apprendista in un negozio di generi alimentari nel quartiere,
considerato malfamato, di Scherzhauserfeld; è questo il tema del
romanzo autobiografico La cantina (T.
Bernhard, La cantina (1976),
Adelphi, Milano, 1984).
Nota bene:
egli fece questo di propria iniziativa, non col consenso né su
imposizione della famiglia. Così, appena adolescente iniziò a
sgobbare alla grande; comunque come scrisse ne La cantina,
al ginnasio aveva voglia di suicidarsi.
Ma lavorando a Scherzhauserfeld... rinacque!
Chi legga le
opere di Bernhard può accusarlo di misantropia; facile accusa. E'
misantropo chi detesta o addirittura odia l'umanità. Certo,
spesso lui polemizza con tanta gente e la sua penna ferisce.
Ma
io penso che Thomas non sopportasse chi finge di
esserti amico e chi pretende di conoscerti perfettamente quando
questo è impossibile anche a noi stessi...
egli detestava poi l'intervistatore che gli rivolgeva delle domande
assurde o banali e si infuriava quando qualcuno invadeva i suoi
momenti di riflessione. E gli piacevano le persone corrette, non
quelle fintamente buone.
Inoltre
denunciava il miscuglio, in Austria, di cattolicesimo e mentalità
nazista che a suo avviso esisteva ancora, a decenni dalla
fine della guerra. E pare che su questo punto tra gli artisti
d'Austria concordassero il marito di Maxie Wander, Fred, la
scrittrice Jelfriede Jelinek e la poetessa Ingeborg Bachmann.
Thomas,
inoltre, non aveva timori reverenziali verso certi mostri sacri della
cultura: per esempio, in
Antichi maestri attacca
Heidegger del quale
dice: “Heidegger è il filosofo dei tedeschi in pantofole
e berretto da notte.” Ed
aggiunge: “Heidegger è un piatto forte della filosofia tedesca, e
fa sempre un figurone, lo si può servire ovunque e a qualsiasi
ora(...), è un budino di letture,
insapore ma facilmente digeribile per
l'anima tedesca media.”
Se
non erro, in un punto di Goethe muore,
Bernhard attacca con discreta violenza anche Popper.
Leggendo
T. Bernhard, che secondo me doveva avere molto dello spirito giocoso
ed irriverente di Mozart, (altro enfant terrible di
Salisburgo) in lui si coglie anche della voglia di divertirsi... non
solo di fustigare uomini o costumi. Penso che tutto questo risulti
dalle espressioni usate dal Nostro, per quanto colleriche possano
sembrare.
In
Conversazioni con Thomas Bernhard egli
osserva infatti che: “Ci sono persone tanto tenaci, che non
capiscono o non sentono assolutamente niente. Diventano subito
insolenti se, per esempio, non si apre la porta, allora picchiano
con questo batacchio, come se la
volessero fare a pezzi dalla rabbia, e i vicini dicono 'E'
in casa.' A Vienna vivo
addirittura nell'anonimato.”
In
effetti, è il sogno soprattutto dell'artista,
quello di vivere in splendida solitudine (che non è isolamento)
per poter creare senza interferenze da parte del mondo esterno.
L'artista che perda questa sua volontaria solitudine
finisce per vivere male e per creare peggio.
Del resto, lui non va in giro a seccare nessuno, allora perché gli
altri lo fanno?!
Qui
ci troviamo di fronte ad una contraddizione, che però per me è solo
apparente: come diceva Lennon, un artista lavora soprattutto a
casa. L'artista potrà anche
fare tutte le esperienze di questo mondo, ma poi deve concretizzare,
dare forma compiuta ad esse... e per farlo deve rimanere da solo e
tranquillo. Nessuno può creare
davvero con una folla che gli invade la casa e gli fracassa
concentrazione ed ispirazione.
Comunque
sempre nelle Conversazioni citate
Bernhard, benché consapevole che: “Nessuno dovrebbe rinchiudersi e
sbarrare tutto”, aggiunge “ma se apro la porta la gente entra
dentro; vengono qui pensando di essere a casa propria. Come se io
fossi una specie di giraffa che si può guardare,
che è comunque a disposizione del pubblico.”
Allora,
l'artista che non voglia passare da “giraffa”, sa che: “Ogni
persona vuole partecipare a qualcosa e nello stesso tempo essere
lasciata in pace. Siccome le due cose, in realtà, sono
inconciliabili, si è sempre in conflitto con sé stessi.”
E
davvero il dissidio tra inclinazione a creare e desiderio di stare
con gli altri è lacerante. Penso che seguendo la prima
strada ci sia il rischio di
realizzarsi come artista ma di fallire come essere umano; seguendo la
seconda, si può fallire come
artista e realizzarsi come uomo, o come donna.
Ma forse le
cose non sono poi così tragiche, magari sono solo un un tantino
drammatiche. Credo che Bernhard ci avrebbe riso sopra. Senz'altro. E
quasi quasi, lo faccio anch'io. Perché un artista sa sempre che cosa
fare; soprattutto quando non lo sa.
venerdì 13 giugno 2014
La discussione filosofica (16/a parte)*
Spesso chi voglia ragionare di
filosofia si lancia in lunghe, talvolta interminabili polemiche. Non
di rado questi infuocati polemisti difettano d'effettiva
padronanza della materia e degli
argomenti che affrontano.
Ora, questo
non è necessariamente un male: anzi io apprezzo l'entusiasmo e che
alcuni/e vogliano dedicare parte del loro tempo a qualcosa di così
difficile ed anche poco divertente come appunto è la filosofia.
Quel
che conta è che queste persone siano disposte a prendere sul
serio la discussione filosofica:
il che significa cercare di capire le tesi del loro interlocutore ed
eventualmente accettare la correzione dei loro errori.
Purtroppo,
questo capita di rado. Già Platone osservava che per es. “i
giovincelli, quando la prima volta assaggiano l'arte del ragionare,
ne usano come di un gioco, servendosene sempre per
contraddire; e scimmiottando
quei che li confutano, van loro confutando altri, godendo come dei
cagnolini a trascinare e sbranare coi ragionamenti chi si trovi via
via loro vicino.”1
Ma
per me tale discorso non riguarda solo i giovincelli.
Comunque, il sopraggiungere della cosiddetta “maturità” conduce
tanti/e a considerare le questioni più importanti ( il
problema del bene e del male, quello della giustizia, della
conoscenza, di una umana convivenza
civile ecc.) roba da idealisti o da... perdigiorno!
Ammucchiare
(spesso non onestamente) danaro,
lanciarsi in avventure in fondo pseudopolitiche (perchè in esse ci
si disinteressa del bene comune),
scolpire il proprio corpo in palestra, considerare le donne o gli
uomini semplici prede sessuali, non perdersi una partita di calcio
ecc. ecc., tutto questo dalla maggior parte delle persone è
considerato davvero
importante.
Ma
in filosofia il duro
ed umile tirocinio passa per folle o inutile. Così, certo giustamente, si pensa che per qualsiasi scienza, mestiere, tecnica o
professione serva una preparazione specifica. Addirittura: “Si
ammette che per fare una scarpa, bisogni avere appreso ed esercitato
il mestiere del calzolaio”, ma: “Solo pel filosofare non
sarebbero richiesti né studio, né apprendimento, né fatica.”2
Così,
spesso pensa di capire la filosofia perfino chi possegga il
“fondamento di un'ordinaria cultura” e soprattutto chi si affida
a dei “sentimenti religiosi”3, peraltro genericamente intesi.
Tutto questo spiega perché tante persone dimostrino tanta sicurezza
in fatto di filosofia, laddove un certo Socrate (che
come è noto asseriva di non sapere)
doveva capirne pochino...
Ma il vero problema nasce quando la discussione filosofica avviene con
chi della disciplina ha una conoscenza ma cerca il cavillo o come si
dice popolarmente, va a cercare il pelo nell'uovo. Infatti, poiché
in filosofia direi qualsiasi argomentazione, idea o teoria conterrà
sempre qualcosa di non totalmente esatto
(i filosofi non sono divini),
questo permetterà al cavillatore di scovare senz'altro qualcosa a
cui aggrapparsi per “dimostrare” che la tesi altrui è errata.
Così
questo simpatico personaggio, olimpicamente indifferente al senso
complessivo del pensiero da lui
criticato, senso che peraltro gli è chiaro,
bollerà indifferentemente l'altrui
pensiero di astrattezza o all'opposto, di ovvietà. Di
sentimentalismo o di
cinismo. Di ignoranza o di
esibizionismo culturale. Di illogicità o
di pedanteria...
L'accusa,
condotta sul filo di una polemica in apparenza bonaria ma in realtà
parecchio astiosa, attribuirà all'avversario e/o alle sue tesi colpe
e difetti d'ogni tipo.
Del
resto, per chi abbia una purchessia preparazione
filosofica e soprattutto una certa attitudine al cavillo,
un'operazione come quella risulta facile: gli basterà fondare le sue
critiche sul “buon senso” che porta l'uomo della strada a
diffidare di qualsiasi cosa si allontani di un cm dal suo naso e dal
ritenere “illogico” l'uso di alcuni termini. Crederà così
d'aver ridotto la filosofia ad una sorta di delirio che non
reggerebbe il confronto col più scalcinato dei telequiz: nei quali,
almeno: “A è a e b è b, diamine!”
L'esasperato
culto quindi della logica formale,
quella che è stata codificata da Aristotele (e che si fonda sul
principio di non contraddizione) viene utilizzato come un killer per
assassinare qualsiasi tesi non rientri in un quadro evidentemente già
dato, precostituito. Un po' come se uno dicesse: “Va' dove vuoi, ma
non uscire da questa stanza.”
A
fine '600 commise questo errore perfino il filosofo tedesco Leibniz,
che attribuì alla personalità ed al pensiero di Abelardo
un'irrazionale ed irritante inclinazione a contraddire comunque
il prossimo. “Perché in
fondo, non si trattava che di una logomachia: egli alterava l'uso dei
termini.”4
Letteralmente,
logomachia significa
“battaglia di parole.” Per Leibniz uno dei filosofi più
importanti del Medioevo era solo un noioso parolaio.
Eppure, già
Cicerone aveva chiarito quel che ribadirà Abelardo nel XII secolo:
“Soprattutto ci ostruisce il cammino verso la comprensione
l'insolita forma dell'espressione e il più delle volte il diverso
significato delle medesime parole, per il fatto che lo stesso termine
in alcuni casi è utilizzato in un significato, in altri in un
altro.”5
Nessuna
alterazione dei
termini quindi ma semmai un loro ragionato e ragionevole
(perciò prudente ed onesto)
utilizzo.
Di
un problema simile si occuperà nel '900 anche Gramsci
quando osserverà che: “Tutto il linguaggio è diventato una metafora e la storia della semantica è anche un aspetto della storia
della cultura: il linguaggio è una cosa vivente e nello stesso tempo un museo
di fossili della vita passata. Quando io adopero la parola "disastro" nessuno può
imputarmi di credenze astrologiche, o quando dico “per Bacco”
nessuno può credere che io sia una adoratore delle divinità pagane,
tuttavia quelle espressioni sono una prova che la civiltà moderna è anche uno sviluppo del paganesimo e dell'astrologia.”6
Ma ripeto, chi
insista sulla sola logica formale finisce per sembrare più realista
del re, poiché né l'ambiente di studi studi aristotelico (il Liceo)
né lo stesso Aristotele diedero appunto alla logica particolare
importanza.7
Che dire? Purtroppo
saranno sempre all'erta quelli che esamineranno con comica anzi ridicola severità
(ben lontani quindi dalla latina gravitas)
le tesi altrui. Abelardo chiamò costoro “pseudodialettici” cioè
falsi dialettici: si
riferiva a quei “professori di dialettica” che presumevano di
poter spingere il proprio pensiero oltre quello
di chiunque altro.8
Ma
in questo, essi finivano paradossalmente per assolutizzare
la loro filosofia: il paradosso
consiste nel fatto che l'autentica dialettica,
la vera filosofia deve criticare anche sé stessa e
se non fa questo, della vera dialettica ha solo la maschera.
La
vera dialettica deve invece trovare alimento anche nei propri
errori, vale a dire
correggendoli in modo da far progredire realmente il proprio
discorso... e forse, contribuendo in questo al miglioramento anche
alle riflessioni altrui. Una filosofia così intesa si presenta
quindi come un sistema animato da una permanente, continua volontà
di automiglioramento.
Bene,con
questa 16/a parte chiudo con l'esame dell'eccesso di
critica, esame che spero d'aver
concluso in modo soddisfacente.
Buoni
mondiali!
Note
*
Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post
rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il
17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011;
La
6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
Il
riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il
21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la 10/a il 5/10/2013, l'11/a il 30/10/2013, la 12/a il 16/11/213.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la 10/a il 5/10/2013, l'11/a il 30/10/2013, la 12/a il 16/11/213.
Il
riepilogo di questo post (dall'8/a all'11/a parte) è stato
pubblicato il 13/12/2013.
La
13/a parte è stata pubblicata il 19/01/2014 e la 14/a l'8/02/2014.
La 15/a è stata pubblicata l'8/03/2104.1 Platone, La repubblica, Fabbri Editori/Bur, Milano, 2000, vol. II, p.276. Il corsivo è mio.
2 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Roma-Bari, 1980, Vol. I, §5, p.8.
3 G. W. F. Hegel, Enciclopedia, op. cit.,p.8.
4 Pietro Abelardo, Teologia del sommo bene, a cura di Marco Rossini, Rusconi, Milano, 1996, p.45.
5 M. Rossini,
Introduzione a P. Abelardo, Teologia del sommo bene, op. cit.,
p.23. La citazione è tratta dal Prologo alla
più nota e controversa opera di Abelardo, il Sic et non (Sì
e no).
6 Antonio
Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell'Istituto
Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 2007, p.438.
7 Eric Weil,
Filosofia e politica, Vallecchi Editore, Firenze, 1965, pp.51-52.
8 P. Abelardo,
Teologia del sommo bene, op. cit., p.100.
lunedì 2 giugno 2014
Cronaca di un simpatico pomeriggio
In questo momento sono le 16.45
del 21 ottobre 2013; quindi sono passati 51 anni dalla mia irruzione in this
world, insomma in questo mondo.
Sono comodamente assiso sul 19 (un
bus ultramoderno) e viaggio in compagnia del Bue Muto e della Vecchia
Signora, destinazione Quartu S. Elena.
Farei a meno dell'aria
condizionata ma visto che a Kalaris,
Caller, Kar-El, Casteddu, insomma Cagliari stiamo
ancora andando al mare, penso che vada bene anche l'aria complessata;
pardon, condizionata...
Non so se la
Vecchia Signora ed il Bue Muto accetteranno di farsi mettere alla
porta, ma in questo periodo ho altro ed altri per la testa.
Per
esempio (o come dicono i Tedeutschi, zumspiel)
rimettere mano a quel libro di filosofia che secondo me, vorrebbe
farsi finire di scrivere.
Oppure
comprarmi una bicicletta, o clettabici che dir si voglia.
O anche
cercarmi una nuova casa editrice... visto che la vecchia ha chiuso.
Soprattutto,
cucinare quella cena medievale di cui parlo invano da tanti, troppi
anni.
Insomma,
la Alte Dame ed il Bue
Muto dovranno aver pazienza... come dicevano le belve ai cristiani
mentre li divoravano.
La serata non
è più calda ma è ancora tiepida. Signor autista, perchè non
spegne la maledetta aria condizionata? Sento un freddino...
Mi
ricordo della visita alla Grande Diga (Groet Dam,
in olandese?) di Volendam. Si trattava di Volendam, ja?
Devo chiederlo a mia moglie, lei lo ricorderà senz'altro.
Ah: non devo
dimenticare, a giugno, di presentare le domande di supplenza.
Ora una
piccola pausa, ladies and gentleman: sto per arrivare a Quartu, devo
prepararmi per scendere dal bus... conservare la penna, il quaderno,
rimettermi gli occhiali ecc. A tra poco, non cambiate blog.
Rieccomi!
Sapete
che la Vecchia ed il Bue hanno hanno fatto un sacco di
storie, per scendere dal pulmo?
Ho dovuto prenderli a calci.
In
biblio (teca) la bibliotecaria aveva in mano dei cd dei … Kiss!
Volevo chiederle. “Ah, segue anche lei i Kiss?”
Ma non ne ho
avuto il coraggio.
Così
ho preso in prestito qualcosa sulla Germania di Nicolao Merker e sono
scappato via mentre la Vecchia Signora si è staccata una gamba di
legno (o di ferro) e brandendo quella ha iniziato a rincorrermi fino
alla fermata del QS.
Il Bue Muto,
invece, muggiva in latino!
Uno scandalo,
amici miei... una vergogna, amiche mie!
Comunque la
serata è ancora molto tiepida e mi sto immettendo in un viale
Marconi inondato di sole ottobrino ed appena velato da un leggero
pulviscolo... o forse, si tratta di una delicata nebbiolina.
Sono le 17.53
del 21 ottobre 2013 ed anche se leggerete questo pezzo con mesi di
ritardo, sappiate che son contento.
Un salutone a
tutte voi ed
a tutti voi!
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